lunedì 23 giugno 2014

Meriam è libera. Ma nel mondo si muore ancora per "apostasia"


Un caso shock in Sudan ha riportato agli "onori" delle cronache l'accusa anacronistica di "apostasia". Una donna, recentemente, ha dato alla luce il suo bambino in carcere. E' stata condannata a morte (impiccagione) per aver sposato un uomo cristiano e convertito alla sua religione. Il tribunale ha negato la validità del matrimonio. 

I gruppi statunitensi per i diritti si sono opposti al verdetto del tribunale e gli avvocati si sono adoperati, anche attraverso il lancio di una petizione, per ottenere la clemenza.
Oggi  Meriam, quella donna, è libera.


Le leggi che considerano reato l'apostasia esistono sulla carta in una minoranza di paesi (l'11% su scala mondiale) secondo la Pew. 

[www.pewresearch.org] 

Si tratta prevalentemente di paesi legati alla religione musulmana. 

La mappa sopra è dal 2012 e sintetizza le punizioni che vanno dalle multe alla perdita della cittadinanza al carcere fino alla morte. 

La seconda cartina , invece, mostra i numerosi paesi non musulmani nei quali ancora esistono leggi sulla blasfemia. 

La distinzione è complessa: l'apostasia equivale a un'eresia, un atto di tradimento o abbandono di una comunità religiosa per un'altra considerata "nemica". 

La bestemmia,invece, è in teoria un atto meno sociale e maggiormente diretto verso il divino. Ma, in pratica, le leggi contro l'apostasia e la blasfemia sortiscono lo stesso effetto: la repressione delle minoranze religiose e la censura della libera espressione. Attualmente, la più grande rete televisiva privata del Pakistan - GEO - è sotto attacco per la presunta messa in onda di uno spettacolo blasfemo. 

In Pakistan secondo un recente rapporto, 14 persone sono state condannate a morte in seguito a sentenze di colpevolezza per blasfemia e 19 detenuti sono stati condannati all'ergastolo. Ma centinaia sono i cittadini arrestati o accusati di aver commesso questo crimine.

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